C’è una cosa che accade abbastanza spesso con pazienti adolescenti, ma non solo, può succedere a tutte le età. Dopo 3 o 4 sedute, ci si sente meglio, si tirano sospiri di sollievo (noi psycho pure, per fortuna) e si valuta di non aver più bisogno di proseguire nel percorso. Questa situazione – che può apparire desiderabile – va considerata con attenzione. Vediamola così: il/la Paziente decide di non venire più e noi psycho semplicemente ne prendiamo atto con un ‘ok, va bene’. Questo/a Paziente probabilmente non si sentirà di essere guidat*, protett*, e uso soprattutto un altro termine – fondamentale nel lavoro con adolescenti, ma ripeto, non solo con loro – non si sentirà tenut* da noi. Poi magari (cosa probabile) la sua storia parla già di adulti di riferimento che hanno lasciato che si risolvesse i suoi problemi, che si arrangiasse da sol*, che non sono stati guida e contenitore di protezione; se ci aggiungiamo pure noi psycho, alla lista, capiamo bene che rischiamo di essere controproducenti o, anche solo, di non lasciare una traccia significativa nel vissuto di questa Persona…un peccato insomma! Si va dall’occasione sprecata al più pericoloso ‘ci sono andato dall* psycho ma non mi è servito un granchè’, frase pericolosa perché può togliere al/alla Paziente la possibilità di tornare a chiedere aiuto, e la sua sofferenza può diventare insostenibile.
Dunque, innanzitutto, stabiliamo con i/le nostr* Pazienti, sin da subito, che sarà sempre il caso di parlarne insieme, dell’idea di terminare, o sospendere, il nostro percorso. Ci prenderemo lo spazio per capire, e decidere di comune accordo, se e quando fermarci, e soprattutto perché.
Va da sé che moltissimo dipende dai bisogni che ci ha portato la Persona; anzi – detta meglio – dai bisogni che noi psycho abbiamo raccolto e tradotto in un linguaggio condiviso, cosa che ci ha permesso di concordare gli obiettivi del nostro intervento. Chiaro che, se la Persona si è rivolta a noi per una consulenza, ad esempio per capire se un comportamento del/della propri* bambin* possa essere segno di malessere, o per avere un parere specialistico sul fatto che propri sintomi fisici (emicrania, dolori muscolari, palpitazioni, altro) possano essere correlati a fattori di stress, o per mila altre possibili richieste mirate, ci sta tutta che nel giro di uno o due incontri, abbiamo potuto soddisfare la domanda.
Se però la Persona chiede il nostro aiuto ‘per stare meglio’, perché ‘dottoressa, non so più come fare, sono disperat*’, la vedo davvero un po’ difficile che in qualche seduta gli/le risolviamo la vita! O facciamo miracoli! Poi la Vita è complessa, le Persone ancor di più, e posso avere anche qualche esempio da portarvi di disperazioni che nel giro di pochissimo si sono sciolte (non certo di miracoli, per carità): si può trattare di quei casi in cui le Persone sono già abbastanza consapevoli di voler/dover fare delle scelte, che hanno in sostanza già deciso, ma sono lecitamente spaventat*, e che cercano da noi rassicurazione, o quella cosa che un mio Paziente chiama ‘la conferma di non essere impazzito’.
Poniamo che sia una Persona di quelle che, alla prima seduta, erano palesemente in seria difficoltà, riconosciuta e dichiarata, a comunicarci ora, dopo pochissime settimane, di sentirsi meglio e di voler pertanto terminare il percorso. Qui la capacità clinica deve cercare il punto di equilibrio tra il tenere e il lasciar andare, tra l’accettare le scelte della Persona e il guidarla verso il suo benessere (di cui può non essere così conscia); qui la capacità clinica somiglia insomma a capacità genitoriali (non a caso, viene particolarmente testata, come vi dicevo a inizi post, soprattutto da Pazienti adolescenti, come appunto da adolescenti figli e figlie). E’ necessario che noi psycho non siamo ‘accondiscendenti per principio’: è un’espressione che ho coniato una volta (di cui sono molto fiera… ha ha ha), discutendo con un collega che, a parer mio, confondeva l’accoglienza con l’accondiscendenza, per l’appunto. Come ho scritto in questo altro post ‘non mi riferisco alla neutralità non giudicante […] ma accuso invece la pretesa di cert* psycho di schierarsi sempre per il non-sì- e-non-no, pur di salvaguardare la propria immagine di imparzialità, […] è quantomeno troppo comodo trincerarsi dietro al non-posso-decidere-per-lei- ha-fatto-ciò-che-si-sentiva. E questo stile nell’esercizio della professione non mi rispecchia’.
E’ davvero importante che noi psycho siamo onest* con i/le nostr* Pazienti, in ogni fase del viaggio in cui li/le accompagniamo. Se sappiamo che stiamo rischiando di lasciarl* sol* in un luogo ostico, in cui non si sono res* conto di stare, dobbiamo far sentire la nostra presenza avvolgente, che non deve essere invasiva, ma deve prendersi la responsabilità di aiutare, deve assumersi il coraggio di fermare e ri-orientare la Persona, con limpidezza e autorevole delicatezza, affinchè essa si senta ‘tenuta nella protezione’ …insomma …vi ho detto…c’è tanto del ruolo del genitore nel ruolo del terapeuta (e di ogni professionista dell’aiuto).
A volte, tenere il/la Paziente significa effettivamente lasciarlo/la andare, dunque sospendere le sedute, affidandogli/le però -mi raccomando – il messaggio, forte e chiaro, che noi ci siamo e ci saremo, che comprendiamo che si senta sollevat* e fiducios* di poter fronteggiare le difficoltà più serenamente, che noi psycho per prim* ne siamo felici; che confidiamo nel fatto stesso che le nuove, piccole e grandi, consapevolezze che ha acquisito, faranno da garanzia per non finire intrappolat* in un vortice di sofferenza tale da impedirgli/le di tornare a chiedere aiuto; sarà un messaggio prezioso che la Persona fisserà nel suo ricordo; sarà la possibilità di ripartire, quando sarà pronta, da dove eravamo rimast*, insieme.