Il/la Paziente che può mandarci in tilt! Quell* che ci inonda con la sua sfiducia nel cambiamento…
Dico subito che in questo post non parlerò nè di Pazienti con depressione, né di Pazienti con scarse capacità di individuare in sè le proprie responsabilità di cambiamento (dato che forse il titolo potrebbe far pensare o alla frustrazione impotente della depressione, o all’incapacità di mettersi in gioco, ad esempio, di personalità narcisistiche).
Ho invece ben in mente, per questo articolo, Persone che si mettono talmente tanto in discussione da sfinirsi (e… quasi…sfinire noi psycho!), Persone che si arrovellano, sempre, ‘nella propria testa’, in modo autoreferenziale, criticandosi di continuo per aver detto o non detto, per aver fatto o non fatto. Per fortuna, quando iniziano il percorso terapeutico, almeno escono dall’autoreferenzialità e, condividendo il vortice di pensieri con noi psycho, questi discorsi interiori, da monologhi, diventano dialoghi. Ma non è affatto semplice ri-direzionare questo genere di dialoghi, incentrati sulla critica di sé e sulla negatività, che io definisco ‘incapacità cronica di darsi possibilità’.
Una mia Paziente mi racconta con molta tristezza di non avere più amiche vere, come quelle che ha avuto da ragazza, a cui ripensa spesso con nostalgia; quando, dopo molti mesi del nostro percorso, ricerca alcune di queste amiche, e riprendono a sentirsi e vedersi, mi riporta di non poter gioire pienamente di questo perché, in fondo, le scoccia che debba essere stata lei a ricercare queste persone, dopo anni che si erano perse di vista; quando, dopo un po’ che si frequentano di nuovo, decide di non farsi più sentire, per verificare se la cercheranno, e queste amiche la ricercano e si preoccupano di come stia, lei è felice di sentirsi cercata – è evidente – ma condivide con me la sua convinzione che, semplicemente, si sentano obbligate a fare ciò che per prima aveva fatto lei; quando decidiamo, lei ed io, che condividerà con loro queste sue convinzioni, quantomeno per uscire ancora un po’ dall’autoreferenzialità dei suoi pensieri, una delle amiche si commuove e le dice ‘mi hai ricordato esattamente la Barbara (nome di fantasia) di vent’anni fa, quella ragazzetta che a 13-14 anni ci teneva il muso ogni volta che si faceva il film di essere stata esclusa, film tutto nella tua testa! Ti ricordi quante volte mi hai fatto arrabbiare e anche piangere perché mi dicevi che non ti volevo come amica? E io invece ti ho sempre voluto un gran bene! Ma guarda che mi hai fatto penare, non sapevo mai come convincerti! E sei ancora una testona!’. Quando Barbara mi descrive l’accaduto, le chiedo: ‘come ti sei sentita?’,
mi risponde: ‘è stato bello sentirmi dire che ci tiene a me, oggi come anni fa ’;
io: ‘quindi ora lo hai capito? Lo senti? Ci credi?’;
lei: ‘si, lo sento, cioè …l’ho sentito…’;
io: ‘non intendo che hai sentito le sue parole con le orecchie…’;
lei: ‘si si, infatti, ho proprio sentito il suo affetto, e anche il suo dispiacere per non capire come fare con me’;
io: ‘e allora? Cosa non ti torna?’;
lei: ‘è che posso sentire l’affetto, ma non posso credere di essere una persona amabile! Lo sai anche tu che non lo sono! Quindi …niente…lei si sbaglia, tutto qui. E poi di nuovo si renderà conto e ci allontaneremo, ma la capisco…’.
In questo esempio, ovvio che il tema non è ‘solo’ quello su cui è incentrato questo post. Nella storia di Barbara (e in tutte le storie), c’è tanta altra roba! Qui c’è lei che è stata abbandonata da sua madre, a tre anni, c’è lei che si è convinta che, se non l’ha voluta sua madre, non la vorrà mai nessuno, per davvero, e per sempre. Ma ora non vi parlo di Barbara per narrarvi questo suo infinito Dolore, parlo di Barbara per mostrarvi quanto il suo monologo/dialogo interiore sia l’emblema delle convinzioni (pensieri) che si scollegano dal sentire (emozioni e sentimenti). Barbara sente l’affetto, lo prova in sé e percepisce quello dell’amica, ma le spiegazioni, le risposte che si racconta per interpretare il mondo attorno a sé, sono avulse da questo sentire, come se non fossero le sue, e non sono mai possibilità che si dà, sono sempre piuttosto possibilità che si toglie!
Voi sapete, vero, a che servono le emozioni? Le emozioni sono come le spie sul cruscotto dell’auto, ci dicono che cosa sta accadendo all’auto (bisogna far benzina? Bisogna aggiungere acqua? Ci ha lasciato a piedi la batteria? Altro?). Le emozioni sono le nostre spie che ci fanno sapere cosa sta accadendo in noi e di che cosa abbiamo bisogno (di rassicurazioni? Di conforto? Di condivisione? Di contenimento? Altro? Le opzioni possono essere tante). Per dare possibilità al nostro bisogno di essere visto, ascoltato, compreso, necessitiamo di tradurre l’emozione in pensieri/parole; a questo servono i pensieri che riguardano noi stessi, infatti: a tradurre l’emozione in un bisogno, così da attuare i comportamenti opportuni e corrispondenti. Questo è il ciclo corretto: 1) emozioni/sensazioni, 2) pensieri/parole, 3) azioni/comportamenti; ossia: le emozioni e le sensazioni corporee ci indicano di cosa abbiamo bisogno, i pensieri traducono in parole (per noi e per l’Altr*) i nostri vissuti, al fine di renderli capibili e comunicabili, e a questo punto possiamo decidere come comportarci, quali azioni fare. Quando capita invece che sentiamo le emozioni, ma non le traduciamo nel concetto corrispondente, perché ci mettiamo a fare supposizioni varie, lasciando che i pensieri (peggio, le convinzioni!) viaggino in autonomia, sconnessi dalle emozioni e dalle sensazioni, agiamo come se le spie fossero interpretabili: in pratica accade che vediamo la spia della benzina, ma iniziamo a raccontarci qualcosa del tipo ‘secondo me potrebbe essere successo che la centralina è impazzita, dunque mi sa che non devo fare il pieno, ma ricaricare la batteria…o non è che devo gonfiare le gomme? Macchè, dai, si sa, il problema è sempre solo quello, quest’auto è un rottame riuscito male, non funzionerà mai, tutto qui!’…
A questo punto la domanda è: ma come se ne esce? Come si fa a interrompere questo circolo vizioso di negatività ad oltranza? Questo loop di impossibilità ad agire secondo il lecito e indiscutibile sentire, questo cortocircuito di incapacità di tradurre il sentire nel linguaggio corretto di pensieri e parole…Come se ne esce?
Vi rispondo così: da psycho, ai/alle nostr* Pazienti, soprattutto a chi è in questo tilt, dobbiamo volere davvero tantissimo bene! Solo se amiamo i/le nostr* Pazienti possiamo reggere la pesantezza della negatività che li pervade. Amarli/e significa avere la pazienza infinita di dar valore ad ogni piccolissimo cambiamento, per sottolinearlo e ricordarlo ogni volta che il/la Paziente ci dirà ‘tanto sono sempre io, non cambio mai’.
A Barbara ricordo più volte come si metta in gioco molto più di quanto si racconti! Ha cercato le amiche, pur convinta che non l’avrebbero voluta, ma l’ha fatto; si è messa a rischio di non essere cercata più, per scoprire com’è invece sentirsi cercata, cosa che negli anni precedenti non avrebbe mai osato, nel terrore di rivivere l’abbandono, invece ora l’ha fatto; ha condiviso le sue paure con le amiche, dopo aver iniziato a farlo con me, cosa per lei prima impensabile…insomma tutt’altro che ‘sono sempre io, non cambio mai’…ma glielo devo ricordare, e non con quella saccenza della serie ‘te l’avevo detto’, ma con Amore, con quell’Amore genitoriale, che porta per mano, che non spinge né tira, ma accompagna, che si sofferma ad ascoltare le paure, a rassicurare, che si prende il tempo e che dà il tempo, che non si azzarda a spiegare la complessità sempre nello stesso, identico, rigido, modo; che individua, mostra e dà possibilità, che mai limita, svilisce, o toglie, possibilità.