Spesso i/le Pazienti, soprattutto ai primi incontri, mi dicono: ‘so che non puoi darmi dei consigli, che devo decidere io…’.
Prima precisazione: consigliare e decidere sono due cose molto diverse. Seconda precisazione: da psycho, non decido al posto dei/delle miei/mie Pazienti, ma loro possono decidere insieme a me cosa fare nelle proprie situazioni di vita, quelle per cui da sol* si sentono in difficoltà e pertanto mi chiedono aiuto. E io non posso, né devo, né voglio, lavarmene le mani. O che consulente sono?
Del resto, l’etimologia della parola ‘consiglio’ è la stessa della parola ‘consulenza’, vengono dal latino ‘consilere’, cioè ‘consultare’, quindi ‘offrire consulenza’ significa anche ‘dare consigli’. La differenza coi consigli dell’amic* non è che il/la consulente professionista non dà consigli e l’amic* sì, ma che il/la professionista dà consigli sulla base delle proprie conoscenze e competenze maturate nell’ambito dei relativi studi e della propria esperienza lavorativa specifica. Altro punto imprescindibile: si tratta di consigli ‘su misura’ per quella Persona nella sua situazione, non generali e generici (come possono giustamente essere quelli dell’amico/a di cui sopra, che parla sulla base di opinioni e vissuti personali).
Esempio 1, tanto drammatico e forte, quanto paradossalmente ovvio (vedi anche post sulla ‘mia psicologia realistica’): non posso astenermi dal consigliare ad una donna, che subisce violenza dal proprio partner, di chiudere questa relazione. Poi certo il consiglio è facile, il percorso per arrivare a farlo, invece, spesso non lo è affatto, anche per la pericolosità di solito insita nella situazione. Ma non deve esistere che lo/la psycho, in casi del genere, non prenda posizione chiara e netta su cosa la Persona necessiti di fare, ritenendo di non potere, o non dovere, dare consigli.
Esempio 2, ambito consulenze genitoriali: tutte le varie affermazioni della serie ‘come fai sbagli’, ‘non c’è una cosa giusta o sbagliata’, ‘non ci sono ricette’, ‘ogni famiglia è a sé, ogni figli* è divers*’, sono tutte opportune e valide…finchè non le utilizziamo per vestirci da Ponzio Pilato (che siamo psycho, che siamo genitori, che siamo insegnanti, che siamo in generale adulti di riferimento per qualche giovane in crescita, diventare Ponzio Pilato – ammettiamolo – non è da fare mai!). Vero che le dinamiche relazionali sono complesse e che certi meccanismi non sono netti, tali per cui non sempre possiamo definire se e come siano esattamente modificabili, al fine di risolvere delle problematiche; ma è anche vero che il nostro mestiere di psycho ci richiede l’ ‘occhio clinico’, ossia (cito il sito Treccani) ‘la capacità di trovare un rapido e giusto orientamento diagnostico’, dunque la competenza di individuare quale sia l’origine e la tipologia di un certo disfunzionamento, portatore di malessere. Senza questo passaggio iniziale, è nullo qualsiasi intervento di aiuto e di cura. E l’intervento di aiuto prevede proprio che vengano date indicazioni chiare, per procedere nella direzione di cura/soluzione delle difficoltà. Proviamo a pensare a dei genitori che ci chiedono come muoversi con il bimbo di cinque anni che non riesce più a dormire da solo nella sua stanza, da quando i vicini sono stati derubati in casa. Siccome vi riporto il caso reale di questa famiglia, vi aggiungo che il papà e la mamma discutevano parecchio da settimane su come fare, e avevano posizioni contrapposte (in generale, sul modus educandi): il papà riteneva di dover resistere ai pianti disperati del piccolo, lasciando che il figlio riprendesse (per stanchezza) l’abitudine che aveva prima del fattaccio, di dormire serenamente da solo nel suo letto; la mamma voleva giocarsela soprattutto con il sistema premi/punizioni, da utilizzare durante il giorno, per cui proponeva di prendere il piccolo con loro nel lettone quando era disperato, poi di rimproverarlo al mattino e metterlo in punizione per questo, per premiarlo invece, con un giochino o altro, nelle mattine che seguivano a notti trascorse intere nel suo letto. Entrambi i genitori erano convinti della propria idea ma – devo riconoscere loro – anche molto pronti a ricevere il mio …e dobbiamo chiamarlo così… consiglio. Tutte le frasi fatte, citate prima, sono state utili per introdurre il mio intervento; il messaggio fu più o meno questo, in sintesi: ‘da genitori, non possiamo riuscire a fare sempre la cosa giusta ed efficace, intesa come quella cosa che aiuta nostro figlio a star bene e crescere sereno, e succede spesso che ci arriviamo per tentativi. Quando questi tentativi non sono casuali e improvvisati, ma pensati, ed espressi all’altro genitore, per trovare insieme una via, già si rivelano ottimi, almeno nell’intenzione, che è appunto quella di aiutare attivamente nostro figlio. Nella situazione in cui siete, entrambi avete compreso che il vostro bimbo sta affrontando una paura, sopraggiunta a causa di un accadimento reale, che lo sta mettendo a dura prova. Entrambi state dando valore a questa paura, anche solo perché non vi siete focalizzati sull’idea – che spesso sopraggiunge in questi casi – che Giacomo (nome di fantasia) stia ‘solo facendo dei capricci’, convinzione che, quando c’è, è dannosa e controproducente. Siete in disaccordo su come risolverla, ma non sul fatto che vostro figlio abbia il diritto di avere paura, questo è importante. Cosa si fa con la paura? Non si può né ignorare né punire, proprio perché avete già colto quanto sia pesante da sostenere per vostro figlio. Davanti ad una paura, bisogna essere rassicurati, non dobbiamo sentire che siamo da soli, abbiamo necessità di sapere che l’altro ci comprende, che non ci giudica, e che ci sta vicino finchè non ci sentiamo più sicuri. Non lasciate che Giacomo creda di dovercela fare da solo, resistendo nella sua stanza come un eroe disperato, o che si senta sbagliato e in colpa quando, come ultima spiaggia, vi raggiunge nel lettone, e poi lo punite; analogamente non fate nemmeno in modo che si senta ‘il bravo bimbo’ solo quando può ricevere il suo premio dopo una lunga notte di resistenza isolata. State con lui a rassicurarlo finchè non si addormenta nel suo letto e, se sente comunque il bisogno di richiamarvi nella notte lì con lui, o di venire da voi, ascoltate e accogliete il suo bisogno di vicinanza, senza che questo abbia conseguenze sul suo potersi sentire in ogni caso capace, adeguato, ‘un bravo bimbo’. Non deve sentirsi in colpa se ha bisogno di rassicurazioni ma deve riceverle finchè ne ha bisogno…’. Il papà: ‘va bene, dottoressa, ho capito, ma se poi andiamo avanti all’infinito con questa cosa?’; la mamma: ‘in effetti, non sarebbe il massimo poi…’. Io: ‘direi che, prima che si vada avanti all’infinito, c’è tutto il tempo, che non dobbiamo stabilire ora, per valutare come vanno le cose…potremmo ad esempio rivederci tra un mesetto e vedere a che punto siamo’ … Penso la soluzione proposta possa apparire persino banale per la sua semplicità intuitiva, e probabilmente lo è, ma quando si è dentro al problema, spesso si perde la lucidità (in questo caso anche perché si perdeva il sonno da settimane), e a tal proposito vi consiglio di leggere questo mio post sulla lucidità-supplente, funzione che spetta a noi psycho. Per non lasciarvi senza finale, vi dico al volo che andò benissimo, quando ci rivedemmo dopo un mese, i genitori di Giacomo erano riposati e tranquilli e Giacomo dormiva senza problemi nel suo letto, come aveva sempre fatto, di nuovo, da quindici giorni. Altro che ‘e se andiamo avanti all’infinito?’! … Ma ci sta, sono sempre lecite anche le paure da genitore, mica solo quelle da figlio/a!
Mi fermerei qui con gli esempi (per ora), spero di avervi persuaso del fatto che da un/una consulente, anche da uno/una psycho, ci si debba – eccome! – aspettare consigli. O che consulente è?!