Come promesso, qualche riflessione sul…anzi sui … setting.
Partiamo col chiarirci che il setting è prima di tutto la Relazione tra psycho e Paziente. Se non si instaura questa – e può succedere – non c’è alcun setting di cui parlare. E non credo di dovervi dire come capire se la Relazione non si instaura, lo capite e basta, e lo capisce soprattutto il/la Paziente che semplicemente non torna al secondo (o forse al terzo colloquio). Se ci capita spesso che le Persone non tornino dopo averle incontrate le primissime volte, poniamoci qualche domanda su cosa modificare del nostro atteggiamento (potrei dire spannometricamente che, per gli inizi, dove gioca molto l’inesperienza, se tornano 3 Persone su 5, possiamo ritenerci soddisfatt*; dopo un paio d’annetti di esperienza, dovremmo veder tornare almeno 4 Persone ogni 5 nuov* Pazienti…ma non confidate troppo in questi numeri, li uso solo per cercare di rendere i concetti che vorrei trasmettere). Schematizzando, direi che, nei primi approcci, possiamo peccare o perché troppo fredd* e distaccat*, o all’opposto perchè troppo invasiv* e indelicat*. Ne riparleremo ma intanto potremmo fare un accenno, ad esempio, all’uso del tu o del lei, giusto per usare l’argomento come spunto di riflessione sul nostro modo di porci verso il/la Paziente. Non credo sia corretta solo una delle due opzioni, ma è davvero importante che la scelta del tu o del lei ci calzi naturale; nel mio caso, ad esempio, tendo a dare del tu a Pazienti giovani e a Persone adulte più o meno mie coetanee; ma quando ho a che fare con Persone più anziane, sento spontaneo il lei. Già dall’inizio del primo colloquio, non faccio altro che chiedere alla Persona, se lo trovo naturale, se possiamo darci del tu, così le evito eventuale imbarazzo (aggiuntivo a quello che già avrà, essendo in una circostanza nuova e delicata); di solito mi dicono di sì, o a volte qualcun* mi dice che non sa se riesce a rivolgermi il tu, non importa, rassicuro che va bene in ogni caso e ci addentriamo nel colloquio (il colloquio sarà oggetto di altri post come questo). Se il setting è innanzitutto Relazione, noi psycho dobbiamo essere consapevoli di quale sia il nostro stile relazionale, e vado oltre: se non è uno stile adeguato ad una Relazione asimmetrica di Aiuto, e se vogliamo fare questo mestiere, bando alle ciance, dobbiamo cambiare! Cosa può renderci più consapevoli di noi, del nostro modo di approcciarci, di accogliere? Strumento principe: la terapia personale! Non mi addentro ora nella faccenda ma mi sentirete ripetere ancora che la terapia personale s’ha da fare!
Ok, passiamo in rassegna altri aspetti del setting. Di come sia sensato ricevere in uno spazio con colori e arredi che ci rispecchino vi ho già accennato qui.
Veniamo alla domanda che più spesso mi sono sentita fare da giovani collegh*: come ci posizioniamo?? Di fronte? Di lato? Scrivania in mezzo? Quanto distanti? Beh, la distanza, in tempi di covid, ce l’abbiamo di default. Covid a parte, la distanza è soggettiva e va matchata con gli altri fattori. Diciamoci intanto che, se abbiamo fatto una scuola di psicoterapia, quasi sicuramente abbiamo idee chiare su come e dove collocarci ma vorrei giusto mettervi una piccola pulce nell’orecchio: attenzione che i metodi appresi non sfocino in rigidità! Questo vale appunto anche per la nostra sistemazione nello spazio durante le sedute. Tenendo fuori da queste riflessioni trasversali i vari Modelli teorici con le loro specificità, esplicito due o tre regole di quello che chiamo ‘buon senso terapeutico‘: le sedie, o poltrone che siano, devono essere comode; possono essere diverse la nostra e quella del/della Paziente ma non secondo una specie di sindrome del boss per cui la nostra dovrebbe farci stare più in alto o emanare qualche sorta di prestigio sociale (so che per qualcun* sto facendo battute, vorrei fosse così …in realtà no! Ho conosciuto collegh* pres* da smanie narcisistiche totalmente fuori luogo …anzi fuori ruolo); se possiamo avere l’accortezza che i/le Pazienti vedano la porta o che non l’abbiano proprio alle spalle, acquistiamo probabilmente qualche punto da subito con i/le più ansios* (dopo i primi incontri, questo dettaglio in realtà perde rilevanza e addirittura, se serve, può esserci un’evoluzione nel setting, concordata, in cui è la Persona ad avere la porta fuori dalla propria vista perché non ha più bisogno di controllare/restare all’erta, perché può cioè iniziare ad affidarsi). Regole di buon senso oltre a queste non ne trovo: piuttosto ho in mente possibilità aggiuntive, sempre nella flessibilità di un setting che deve corrispondere a noi, al nostro modo di accogliere, ai metodi che siamo in grado di utilizzare. Per capirci, se abbiamo nella nostra cassetta degli attrezzi, da saper usare nei modi e nei tempi opportuni, poiché ci siamo adeguatamente format* all’uopo, anche strumenti che spazino oltre il colloquio (giusto per citare esempi in un elenco disordinato: esercizi corporei, tecniche di respirazione, immaginazioni guidate, esperienze di gioco mirato, ecc.) certamente allestiremo con gran piacere nel nostro studio una zona morbida con materassi o lettini, cuscini, tappeti, dove poter far sdraiare e/o far muovere le Persone nell’esplorazione delle esperienze in cui decidiamo di accompagnarle per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici. N.B. Uso il termine terapeutico e non psicoterapeutico (che si riferisce prettamente ad intervento di psicoterapeuta specializzat*) proprio ad intendere i benefici per i/le Pazienti derivanti dal nostro prendercene cura in senso ampio e trasversale, con le nostre parole, il nostro sguardo, i nostri gesti, i nostri comportamenti, squisitamente mossi da interesse autentico per aiutare le Persone a (ri)trovarsi e a star Bene.